Defaustizzazione di un intellettuale: “Se avessero” di Vittorio Sermonti
22/06/2016 blog

di Giuseppe Avigliano

*recensione per l’agenzia letteraria di Gabriella Bardaro per l’iniziativa: Premio Strega 2016, 27 lettori per 27 libri

L’opera ultima di un maestro – e di un formidabile divulgatore – è materiale prezioso, atteso da sempre – magari anche in maniera inconsapevole – dai lettori. È l’opera che colma i vuoti, quegli spazi di immaginazione che si pongono tra chi scrive e chi legge e soprattutto (e quasi esclusivamente) tra chi legge e immagina e idealizza nella figura dello scrittore un Faust onnisciente.

Vittorio Sermonti, all’età di 86 anni, consegna la sua vita ai lettori, con Se avessero (Garzanti Editore). Il gioco è quello comune: se qualcosa fosse andato in maniera diversa, chi sarei diventato? L’evento, nello specifico, risale a quando lo scrittore aveva solo 16 anni e la guerra era appena finita: nel Maggio del 1945, un gruppo di tre (forse quattro) partigiani, armati di mitra, bussa alla porta dei Sermonti in cerca di un fascista.

Se avessero sparato a mio fratello – si chiede Vittorio – che dire?

Il fratello in questione è Rutilio, frater maxime, e quella mattina – diciamolo subito, come d’altra parte già anticipa il condizionale del titolo – non lo hanno sparato. È morto solo nel 2015, all’età di 94 anni.

Si snoda, da quel condizionale iniziale, un flusso di coscienza vorticoso: da una pagina all’altra, Sermonti indugia e declina fatti e pensieri, ricordi e sensazioni. Lo troviamo in un campo di calcio con Pier Paolo Pasolini, che non gli passa mai la palla, dalle sfilate dei balilla alla sezione del PCI, tra una pagina di Shakespeare ed un palcoscenico, da un matrimonio finito a un nuovo amore, tra pagine di diario antiche e confessioni attuali.

Ma chi è Rutilio, quel fratello che si impone, fin dalle prime pagine, in tutta la sua fiera, baldanzosa e autopromozionale figura? Lo sguardo di Vittorio resta, per tutto il libro, lo sguardo di un sedicenne che guarda il fratello maggiore destreggiarsi davanti a tre (forse quattro) mitra puntati addosso. E quando a quei mitra si sostituiranno, nel corso del tempo, le vicende di una società dinamica e in continua evoluzione, Rutilio resterà fermo, identico a sé stesso, incapace di interpretare il mondo, donchisciotte di un fascismo bieco.

Mio fratello è figlio unico, fino a un certo punto. Le sovrastrutture (per dirla karlmarxisticamente, con tutto il nome, per distinguerlo dal Groucho tanto amato da Sermonti) allontanano nel modo più definitivo i due fratelli, ma non raffreddano, anzi rafforzano, la volontà di indagare nell’altro, per riscoprire una buona parte di sé stessi.

È la storia di questo libro, che è anche un libro d’amore e di odio – ma di amore soprattutto – nei confronti di quel fratello ormai sordo, ormai lontano. E di un amore verso la propria compagna, alla quale sono riservati corsivi sempre più lunghi: da piccole parole, fino a pagine intere – metatesto per altre storie, più intime, ma nemmeno troppo.

È la storia di un amore narcisistico, per sé stessi e per il proprio lavoro: per la parola, che costruisce e decostruisce, nasconde per mettere in risalto e si compiace della propria eleganza.

Se avessero delinea un’ipotesi, e con essa altre cento. Ipotesi deriva dal greco hypòthesis: “pongo sotto”.

Questo libro fa esattamente l’opposto e ci restituisce un intellettuale umano, defaustizzato, semplice nei suoi difetti e nelle sue peripezie.

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