Teorie del complotto fra cinema, letteratura e realtà
06/09/2015 blog

di Annalisa Vecchio

 

Nella prima giornata del festival del cinema di Venezia è stato presentato Spotlight, un film di Thomas Mc Carthy, sull’inchiesta del “Boston Globe” che ha portato alla luce l’insabbiamento di numerosi casi di pedofilia da parte delle alte gerarchie della chiesa statunitense. Il film ricalca le orme di Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula, un film del 1976, sull’inchiesta del “Washington post” che denunciò lo scandalo Watergate.

Gli intrighi di potere, i complotti veri o presunti hanno un fascino impareggiabile, sono narrazioni pronte per essere riportate sullo schermo o sulle pagine di un libro. Non a caso, la letteratura del Novecento e poi il cinema, soprattutto statunitensi, hanno utilizzato questa forma di narrazione per costruire moderne mitologie, creando uno schema narrativo da cui è nato il genere più longevo: il noir. Lo schema prevede un ordine iniziale e un evento apparentemente di scarso rilievo, come la scomparsa di una persona o una piccola infrazione. Da qui l’inizio di una investigazione da cui scaturiscono una serie di scoperte, sempre all’apparenza estranee le une alle altre, che diventano sempre più sconvolgenti, e che alla fine si ricompongono in un legame riconducibile ad un disegno occulto di controllo, di sovvertimento dell’ordine sociale, se non mondiale. A questo punto l’ordine preesistente si rivela solo una maschera dietro cui si cela una inquietante verità. Qualcosa di simile al mito della caverna di Platone, ma che qui si chiama “teoria del complotto”.

Quante volte abbiamo sentito e letto di complotti orditi da lobby di potere più o meno occulte? La storia ce ne ha consegnati di veri, come il Watergate; presunti come Catilina contro la Repubblica di Roma, e falsi. Il più terrificante fu ordito nel Mein Kampf di Adolph Hitler. Il fuhrer citò i (falsi) Protocolli dei Savi di Sion per denunciare il ( falso) complotto “pluto-giudaico-massonico” contro l’umanità, legittimando così l’Olocausto, tragicamente vero.

Il punto è proprio questo: di fronte all’ipotesi di complotto, dov’è il limite tra verità e finzione?  Una volta scoperto il sistema di spionaggio ai danni dei democratici, la verità del Watergate venne a galla, Nixon si dimise, e Bernstein e Woodward vinsero il premio Pulitzer. Così è accaduto per l’inchiesta del Boston Globe. Quando però alla denuncia segue solo la narrazione: l’intreccio degli indizi e delle casualità che si inanellano in una catena di eventi, che portano alla deduzione dell’ esistenza di un intrigo-  e nessuna prova, o confessione o cedimento se non l’insinuazione del sospetto – si rimane imprigionati nel regno del dubbio, se non della leggenda metropolitana.

Il complotto negli ultimi cinquant’anni è diventato una teoria: strutturalisti, semiologi e filologi ne hanno individuato il “sistema di segni”, con uno specifico meccanismo di formazione e funzionamento. Il semiologo romanziere Umberto Eco ne ha costruito addirittura uno stile, che connota tutti i suoi romanzi: Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault e Il cimitero di Praga. Eco racconta di intricati  e attraenti complotti, invita il lettore a vestire i panni dell’investigatore (come accade ai più accaniti giallisti), raccogliere gli indizi disseminati nel testo per poi riordinarli, ma non per scoprire l’assassino, piuttosto per ricostruire la struttura e svelare la finzione del complotto. Nell’ultimo romanzo Il cimitero di Praga, per esempio, Eco ci porta passo dopo passo dentro l’inganno dei protocolli dei Savi di Sion, sconfessandoli definitivamente.

I soggetti protagonisti della narrazione complottistica variano a seconda delle epoche storiche. Così se in Il mistero del falco di John Huston (tratto dal romanzo di Dashiell Hammet) del 1941, il complotto è ordito da generici gruppi di potere, sempre a cavallo tra legalità e illegalità, trent’anni dopo,  in piena guerra fredda, sono i servizi segreti dell’est e dell’ovest del mondo, ma soprattutto è la Cia, o una “Cia dentro la Cia” come in I tre giorni del Condor di Sidney Pollack (1975), a cospirare per il controllo dell’ordine mondiale. Sono film in cui la cospirazione è solo materia narrativa, senza alcuna presunzione di verità se non di rappresentare le paure, i sentimenti di un popolo, quello americano, in certe condizioni storiche. La fobia della cospirazione antiamericana anima il romanzo di Don De Lillo Cane che corre del 1978, dove un incredibile gioco di vasi comunicanti tra entità nazionali e sovranazionali, servizi segreti deviati e nazisti, coinvolge l’ignaro protagonista che, suo malgrado, si scontra con una realtà gigantesca. Il terrore del nazismo è però degli anni’60, espresso al meglio nell’apocalittico La svastica sul sole di Philp K.Dick, che apre alla fantapolitica, o all’”ucronia”: la seconda guerra mondiale è vinta da nazisti e giapponesi, che invadono l’ America dividendola in quattro zone di influenza. Dopo la morte del presidente Kennedy, le fobie complottiste si riversano sui servizi segreti, spesso deviati, quindi la Cia, quelli di Sua Maestà e il Kgb. Entrano in scena  personaggi reali come lo storico capo J.Edgar Hoover, o Howard Hughes il miliardario paranoico – a volte insieme come in American Tabloid di James Ellroy. Nel tempo, le trame si sono complicate, stringendo sempre più il crinale tra verità e finzione. Spesso la narrazione è stata trattata come se fosse un docu-fiction: è il caso di JFK di Oliver Stone, un film del 1991. Il film parla  della (vera) inchiesta sull’assassinio del presidente Kennedy condotta dal procuratore Jim Garrison, ma la conclusione è data per unica verità, il che è falso, perché ancora oggi si è fermi nel regno delle ipotesi.

In Italia, invece, il cinema si è cimentato poco con la narrazione letteraria e cinematografica del complotto- con l’eccezione di Il muro di gomma di Marco Risi, sul caso Ustica, qualche romanzo di Giancarlo De Cataldo e poco altro.  Le teorie complottiste invece sono proliferate, soprattutto dagli anni’80 in poi in seguito agli scandali legati alla loggia P2, sotto forma di inchieste. Così, se oltreoceano il filtro della letteratura e del cinema relega la teoria complottista nel campo dell’immaginario, al massimo con la pretesa di rappresentare le paure, o le paranoie di una certa cultura popolare statunitense, in Italia la teoria del complotto si insinua direttamente come verità nuda. Il web ma anche qualche remota pubblicazione cartacea, è il luogo privilegiato in cui trovare questo tipo di narrazioni,  come l’eterno ritorno della loggia P2, le più fantasiose e apocalittiche interpretazioni dell’attentato alle twin towers del 2001, e intrighi di potere che coinvolgono i massimi vertici, sempre deviati, delle istituzioni nazionali e sovranazionali.

Ultimamente mi è capitato di ascoltare di un complotto che si svolgerebbe nell’ambiente militare italiano. Qui, secondo la teoria, si agevola la diffusione di eroina tra i soldati in zone di guerra; che ci sarebbe un traffico di droga dal Medioriente all’Occidente, agevolato dalle alte sfere militari che coprono le falle con misteriosi e sospetti delitti; il traffico di droga affonda le radici negli anni ’60 (siamo già al grado 2 del super-complotto), quando la Cia avrebbe promosso la cultura della droga tra i giovani per farli diventare zombie e privarli della coscienza critica. La Cia per attuare il suo terrificante disegno, si sarebbe avvalsa di spie sotto copertura, insospettabili come Timothy Leary, il profeta dell’Lsd – e magari anche Aldous Huxley, amico di Leary e, perche no? tutta la beat generation. Una balla colossale, che forse non ha bisogno di alcuna mediazione cinematografica, letteraria o delle destrutturazioni di Eco per essere considerata la meno seducente e più inaffidabile delle teorie del complotto.

Spotlight, invece, è un bel film.

Facebooktwittergoogle_plusmail



« »