Sebastiano Vassalli e “La chimera”.
31/08/2015 blog

di Alessandra Giuliana Granata 

(Giurata Premio Strega 2015)

Sono tre i protagonisti assoluti nelle opere di Sebastiano Vassalli, uno dei più prolifici e interessanti autori contemporanei di romanzi storici morto esattamente un mese fa, prima di poter ricevere il Campiello alla carriera e subito dopo aver ricevuto la candidatura al Premio Nobel. Non aveva mai desiderato  premi e riconoscimenti e sembra essersene andato ora di proposito, senza fare rumore piuttosto che tornare alla ribalta, com’era vissuto negli ultimi tempi: quasi esule in una zona tranquilla fra le risaie a condurre una vita ritirata e semplice.

Dunque tre i suoi protagonisti assoluti: il tempo, Novara (e il novarese) e il monte Rosa che l’amico poeta Dino Campana aveva definito “chimera”, termine che Vassalli avrebbe usato come titolo del suo romanzo più famoso che gli valse il Premio Strega nel 1990 e la candidatura al Premio Campiello in quello stesso anno.

Ma non è una Novara concreta quella descritta nei romanzi di Vassalli. È una città, quella che sorge davanti alle montagne, che – come il Monte Rosa e molti protagonisti umani – non compare mai con il suo nome, quasi come se lo scrittore volesse raccontare non dei luoghi nei quali è vissuto e non di nomi altisonanti ma di un’umanità che, anche quand’ha lasciato la sua impronta nel mondo, è comunque destinata a fama effimera, mentre Novara è quasi surreale sfondo di una pièce sulla Storia d’Italia, simbolo e spettatrice dei grandi mutamenti che hanno attraversato il Paese.

La Chimera nasce dal ricordo di un viso sbiadito di Madonna su un’edicola votiva d’inizio Seicento. La modella che rappresenta la Vergine è Antonia Spagnolini, una delle più belle donne mai viste nella bassa novarese, secondo testimonianze dell’epoca; una strega, un’esposta, adottata nel tempo sciagurato in cui era considerato naturale ed era tollerato anche dai preti che le figlie venissero uccise in culla perché grandi erano la fame e la miseria nella bassa.

Antonia cresce dunque insperatamente come figlia legittima di contadini di Zardino, un paese abitato da gente superstiziosa che non ha timor di Dio come il suo parroco, l’eccentrico don Michele, uomo gentile, piuttosto stregone che prete, che usa la chiesa per coltivare i suoi bachi da seta. Durante i rigidi inverni, mentre tesse davanti al fuoco, Antonia conosce, nei racconti delle donne, l’esistenza delle streghe che si incontrano con il diavolo sul dosso dell’albera per partecipare ai sabba. Rabbrividisce mentre le menti di chi racconta quelle storie già s’ingegnano, per invidia e diffidenza, ad accusare lei di quelle stesse nefandezze.

D’un tratto la vita tranquilla del paese cambia quando don Teresio subentra al blasfemo don Michele, pretendendo che la gente prenda parte alla messa domenicale e doni generose offerte alla parrocchia. Lui, raccogliendo le testimonianze di due gemelle che accusavano la ragazza di aver fatto impazzire Biagio “lo scemo”, un nipote che le due trattavano alla stregua di un animale, denuncerà l’innocente Antonia al Sant’Uffizio.

Sembra quasi però, che un destino beffardo avesse già deciso la sventura di Antonia. Mentre pascola le pecore con le amiche, un pittore si avvicina per chiedere informazioni. Ricevutele si avvia alla sua destinazione per dipingere un’edicola votiva, usando per il viso della Madonna quello dell’ignara Antonia. Riconosciuta in quell’immagine il volto dell’esposta, don Teresio rifiuta di benedire l’edicola e, quando suo malgrado Antonia balla con uno dei Lanzichenecchi giunti per saccheggiare Zardino, la caccia dalla chiesa. La ragazza, che aveva vissuto i primi anni di vita in orfanotrofio, non è sconvolta dall’atteggiamento dell’ennesimo religioso che non considera affatto ministro di Dio. Poiché viene vista incontrarsi nottetempo con un ragazzo, Gasparo, un poco di buono che riesce a irretirla, viene accusata di partecipare ai sabba. Interrogata dagli inquisitori di Novara e costretta a confessare ogni accusa, Antonia si prepara ad affrontare un dolorosissimo calvario. Ma La Chimera non narra soltanto la triste vicenda di Antonia Spagnolini. Nel romanzo, Vassalli affronta un altro terribile dramma, quello dei risaroli. Erano i risaroli persone deformi o malate di mente assoldate con l’inganno per la raccolta del riso. Veniva prospettato loro e alle loro spesso ignare famiglie, un lavoro semplice e ben retribuito. Invece, sfruttati senza pietà come schiavi, i risaroli erano costretti a lavorare per ore immersi nell’acqua anche se febbricitanti. Inseguiti e puniti se tentavano la fuga, spesso morivano di stenti e anche i più forti erano destinati a non tornare più alle loro case. Nell’Italia che tante parole spese e tanta solidarietà mostrò nei confronti degli schiavi d’America, è scandaloso – denuncia Vassalli – che sia stata cancellata perfino la memoria di queste povere vite perdute.

Quindi Novara, il Monte Rosa e le brevi vite di uomini, ma è soprattutto il tempo il protagonista delle vicende e Vassalli ce lo ricorda in ogni storia. Il tempo è il signore che domina gli uomini in affanno per dare senso alla loro vita, senza riuscire a fare altro che offrire un passatempo agli dèi che li osservano dall’alto. L’explicit di Cuore di pietra del 1996, riflessione sul nostro vero padrone, risuona, oggi, come un congedo di Vassalli da noi e dalla vita: «Un battito di ciglia del tempo e l’uomo che ha scritto questa storia non esisterà più; un altro battito di ciglia, e al posto della grande casa sui bastioni ci sarà un edificio di cristallo in cui si rifletteranno le nuvole e le montagne lontane […]. Soltanto gli Dèi sono immortali, mentre tutto ciò che esiste nel tempo è destinato a perire. Homo humus, fama fumus, finis cinis».

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