Il caso Spotlight. Chiesa e giornalismo d’inchiesta in America
10/11/2016 Letteratura e cinema

di Margherita Faia

Oggi sembra molto alla moda andare alla ricerca dello scandalo, soprattutto quando colpisce dei poteri tradizionalmente molto forti, come quello religioso, in particolare della Chiesa cattolica. Eppure il film vincitore della passata edizione del premio Oscar, pur essendo centrato proprio su uno scandalo epocale, quello scoppiato in seno a una diocesi del Nordamerica, si distingue per una riflessione seria e assolutamente scevra di pregiudizi di parte, ed esalta un tipo di giornalismo che ha come fine l’obiettività della cronaca e non il gusto del morboso e del torbido, anche quando si occupa di fatti scottanti e compromettenti.

Parliamo de Il caso Spotlight, che ha conseguito  nel 2016 l’Academy Award sia come miglior film sia come miglior sceneggiatura originale, oltre a numerosi altri riconoscimenti in tutto il mondo.

La vicenda è ambientata a Boston nell’anno 2001. La redazione del quotidiano locale è in fermento per l’arrivo del nuovo direttore Marty Baron (Liev Schreiber); a beneficiare dell’acume giornalistico del neo arrivato è il team Spotlight, che si occupa delle inchieste più scottanti. Coordinata dall’esperto Robby Robinson (Michel Keaton), i quattro giornalisti che compongono la squadra (Mike Ruffalo, Rachel Mc Adams, John Slattery, Stanley Tucci) si addentrano, su richiesta del direttore, in un’inchiesta complessa e sconvolgente, scoprendo che una considerevole fetta dei sacerdoti cattolici della città è implicata da decenni in brutte storie di molestie a danno di minori indigenti e con problematiche familiari pesanti alle spalle. Ancor peggio è giungere all’amara consapevolezza di un atteggiamento mentale omertoso da parte delle istituzioni ecclesiastiche, amministrative e politiche della cattolicissima Boston. La verità verrà a galla tra innumerevoli difficoltà, grazie alla collaborazione delle vittime, di testimoni coraggiosi e avvocati a cui demorde la coscienza, e la fatica dei quattro coraggiosi reporter sarà ricompensata con il prestigioso premio Pulitzer.

Basato su reali fatti di cronaca, Il caso Spotlight regge per tutta la durata dei suoi 120 minuti grazie alla felice combinazione di una serie di fattori: la regia minimale di Thomas Mc Charty, un solido cast, la scrittura pulita di una sceneggiatura diretta, composta a due mani dal regista e da Josh Singer. Questa non mette al centro dell’attenzione la pedofilia, non vuole commuovere lo spettatore ricercando la lacrima facile. Non c’è immediato moralismo o psicologia spicciola. Quello che propone è una storia di giornalisti, che si trovano di fronte ad una vicenda densa e grave, di alto impatto sociale; si focalizza sul loro lavoro, sulle indagini, mostrandoci l’operato “investigativo” che c’è dietro l’articolo che fa da apripista ad un importante caso giudiziario e morale. C’è una minuziosa ricostruzione della vicenda, che fonde però con eleganza semantica e minimalismo la realtà con la finzione, i fatti per come si sono svolti, nel pieno rispetto delle vittime, con la necessità di dargli un andamento narrativo moderno e coinvolgente: la verità modellata a forma di ragionamento filmico.

Il maggior pregio del film è l’aver preso i fatti reali e averli plasmati alla perfezione su tutti i membri del cast: nessuno di essi “sovrarecita”, ma tutti lavorano in modo coeso pur evidenziando le proprie personalità. Il film è pregevole anche per il montaggio-sequenza, che ci restituisce l’esperienza di una visione dura e potente.

Nell’era dell’informazione fast e on-line il giornalismo de Il caso Spotlight si incasella nel racconto di un tipo di inchiesta che fa riferimento a Tutti gli uomini del presidente di Pakula. L’obiettivo, la meta sacrosanta di un reporter serio è la Verità, in tal caso veicolata da un giornalismo di servizio che sa di impegno etico e di indelebile testimonianza storica.

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