Di come ci si ritrovi e ci si perda ancora. Ricordami così, di Bret Anthony Johnston.
22/07/2015 blog

di Giuseppe Avigliano

La parzialità del racconto è una caratteristica comune della cronaca. Le luci si accendono sul fatto, abbagliano il palcoscenico degli avvenimenti fino a confonderne realtà e supposizioni, indagine e sproloquio. La letteratura di consumo, le riviste scandalistiche, i talk shows televisivi si concentrano nel mezzo: nel momento dell’assenza o della ricerca della verità. Poi spengono le luci, tirano via i fili, lasciano il posto. E la vita va avanti, da qualche altra parte.

Ricordami così inizia dove la cronaca finisce. Indaga dove la psicologia non arriva. Justin è tornato a casa dopo essere scomparso per quattro anni. Aveva undici anni il giorno in cui si persero le sue tracce. Ne ha quindici – a ridosso fra infanzia e adolescenza – il giorno in cui torna a casa. La cronaca della sua scomparsa ha segnato la piccola comunità texana in cui la famiglia Campbell vive. All’inizio volontari venuti da ogni parte del paese hanno attivato squadre di ricerca. Poi gli striscioni con le foto del bimbo scomparso hanno riempito gli spazi pubblicitari ai bordi delle strade, le verande dei negozi, le bacheche delle scuole. Poi il commissariato ha affidato le indagini a un ristretto gruppo di poliziotti. Poi l’attivazione di un numero verde. Alla fine la rassegnazione, lenta – tremendamente silenziosa – ha preso il sopravvento sulla speranza.

Se quello che succede nel mezzo, dunque, è appannaggio della cronaca, ciò che viene dopo è materia letteraria. Cosa succede quando Justin torna nel suo nucleo familiare? Quali meccanismi si innestano dopo quattro anni – quattro! – di assenza. Dove comincia e dove finisce la normalità di una vita familiare?

Bret Anthony Johnston analizza con precisione chirurgica l’elaborazione della re-integrazione di Justin nel tessuto familiare. All’entusiasmo iniziale subentra, fin da subito, una logica molto complessa. A tratti kafkiana, per il disorientamento totale dei protagonisti di fronte alla realtà. A parte cinica e ostinatamente contraria a ogni felicità ritrovata.

C’è un fantasma, che minaccia ogni tentativo di ritorno alla normalità. È il rapitore di Justin, che non si trova ancora in galera – e probabilmente non ci andrà mai se al processo non si dichiarerà colpevole. Si chiama Dwight e vive in una città che dista da quella dei Campbell solo pochi chilometri.

La sete di vendetta, la morbosa curiosità di guardare in faccia al mostro, la difficoltà di ricucire gli strappi passati, la volontà di ricominciare senza sapere come, gli equilibri cercati e spostati in continuazione, le emozioni incerte, i sensi di colpa, l’ombra della morte: la tranquilla famiglia dei Campbell diviene il paradigma di un disagio più grande, che ruota intorno al rapimento ma che non riguarda – solo – il rapimento. C’è di mezzo la vita, il percorso che ogni componente familiare fa con se stesso prima ancora di essere parte della famiglia. C’è di mezzo tutto quello che ognuno nasconde all’altro. Lo scarto di falsità che caratterizza ogni rapporto. La necessità di occultare cose a favore della rivelazione di altre non meno false e non meno vere.

Cecil è il vertice più lontano del trapezio familiare dei Campbell. Ad Eric, Laura, Justin e Griff, infatti, va aggiunto lui, il padre di Eric. Vedovo e con un passato in galera, nella vicenda del libro assume le sembianze di un ultimo presidio di giustizia, al quale tutti si aggrappano inconsciamente. La sua fermezza, le pistole che nasconde dietro al banco dei pegni che gestisce, le storie sul Messico,  le ombre del passato, ne fanno un punto fermo: la boa dalla quale è necessario passare per ottenere un riscatto.

La tensione cresce di pagina in pagina, seppure tutto si costruisca per supposizioni, pensieri e paure dei protagonisti. Laddove si pianifichi un atto, è già pronta l’azione dissuadente della ragionevolezza. Ma il confine si perde facilmente e non è facile distinguere fra cosa è giusto e cosa non lo è. L’unica cosa che resta netta, distinta e sicura è il ponte, l’Harbor Bridge.

Quel ponte divide il comune dove vivono i Campbell e quello dove sta il rapitore, Dwight. Divide il posto in cui per quattro anni i Campbell hanno combattuto l’assenza e quello in cui Justin è cresciuto diventando per sempre un altro. Su quel ponte Eric lascia il volante dell’auto a Justin, per la sua prima lezione di guida. È la metafora crudele della separazione, quella di un figlio dal proprio genitore. Una seconda separazione: quella inevitabile.

Ricordami così. Il titolo è la sentenza definitiva di una perdita. Non ci si ritrova più, in certi casi. E l’ostinazione del ricordo rimane l’ultima speranza di vita a cui legarsi.

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