Favola nera di un lager italiano
23/01/2016 blog

di Alessandra Giuliana Granata

C’erano una volta, in un paese lontano lontano, brandelli di baracche, brandelli di storia e brandelli di memoria. Quella che vi stiamo per raccontare è la bella favola di Ferramonti di Tarsia, uno dei più grandi lager d’Europa, il più grande in Italia, il solo fatto costruire appositamente da Mussolini per rinchiudere ebrei, apolidi, nemici del fascismo.

Oltre a una baracca pericolante e a pochi cimeli, di Ferramonti rimane il racconto edificante che viene tramandato alle giovani generazioni dalle guide del Museo della Memoria: a Tarsia non si stava poi tanto male, si viveva da internati al sicuro dalla guerra e nessuno era costretto a lavori faticosi ma, perfino libero di non lavorare affatto, poteva mollemente coltivare passatempi. I soli a subire punizioni erano ribelli recidivi perché, si sa, anche la storia più felice diventa noiosa se privata di ribelli recidivi.

Ferramonti, dunque, era un’oasi di pace e, data la levatura dei reclusi – pittori, medici, uomini di cultura – accomunabile a una sorta di club per menti eccelse. Bambini allegri, pasciuti dotati di grembiulini immacolati ci sorridono da una foto d’epoca a testimoniare che Ferramonti era una specie di prestigioso collegio svizzero in cui imparavano anche a recitare e a suonare uno strumento.

Da quel che si racconta, nessun bambino era morto a Ferramonti e, interrogate, le guide non ricordano neanche il piccolo Leo Dellesz di tre mesi, il solo bimbo la cui lapide è lasciata all’incuria nel cimitero di Tarsia, con quelle di altri ebrei, distrutte o coperte di sporcizia al punto da non permettere neppure di leggere i nomi di chi riposa in quella terra. Ma forse non è giusto che i morti tornino a imbrattare la nostra bella favola edificante, vi pare?

Il cimitero è tanto vicino al museo quanto è lontano da una memoria abbellita, falsata e decorata da strati e strati di zucchero. Ferramonti non era l’Inferno perché il male era altrove, il male era ad Auschwitz, il male era a Dachau; a Ferramonti nessuno veniva fucilato. Certo, a Ferramonti c’era la malaria, ma non in forma grave: perfino nell’ultima baracca ancora in piedi sono visibili le zanzariere che i buoni direttori – che proibivano la distribuzione del chinino – avevano fatto porre alle finestre.

Noi che conosciamo la vera sorte degli internati del lager calabrese per aver letto l’ormai quasi introvabile Ferramonti un Lager nel sud di Francesco Volpe (Edizioni Meridiane, pagg. 207) che contiene gli Atti del convegno sulla Shoah tenuto a Cosenza nel 1987 con i racconti dei sopravvissuti, non abbiamo potuto far altro che lasciare Tarsia con un senso di sgomento e di angoscia nell’animo.

Nella bella storia di quello che, a quanto pare, dovrebbe essere non motivo di vergogna, ma fiore all’occhiello d’Italia stranamente trascurato dalla storiografia ufficiale, mancano i dettagli della favola nera o, piuttosto, della storia dell’orrore raccontata dai testimoni diretti, un racconto che toglie il sonno perfino a chi l’ascolta e che non può essere dimenticato da chi l’ha vissuto. Oggi le persone che raccontano la vera Ferramonti sono talmente poche da contarsi sulle dita di una mano. I pochi testimoni ancora vivi hanno un vago ricordo felice dell’infanzia trascorsa nel campo.

La durezza del lager era in parte leggendaria, dunque? Fra le voci dei testimoni indiretti, quella dell’editore Walter Brenner ridà forza ai racconti crudi parlando di una retorica buonista che ruota intorno a Ferramonti a causa di un clamoroso equivoco. Suo padre Gustav, fuggito miracolosamente da Dachau e acciuffato a Milano, venne recluso a Tarsia. Capì ben presto che Ferramonti non era Dachau. A Ferramonti non c’erano le camere a gas e un internato poteva sperare di cavarsela. La sua sopravvivenza dipendeva dalla resistenza fisica, non da un ufficiale delle SS. Ma soltanto per questo motivo Ferramonti non era Dachau.

Costruire un campo di internamento in Calabria era stata una scelta strategica. La regione, avulsa dal resto d’Italia, chiusa e inaccessibile, era da almeno un secolo il luogo ideale in cui mandare al confino personaggi scomodi.

Qui il lager venne costruito appositamente in zona non completamente bonificata, nonostante gli allarmi lanciati dai medici perché alto era il rischio di contrarre la malaria. Un metodo di distruzione di massa “naturale”, non meno crudele delle camere a gas, ma senza che le morti pesassero sulla coscienza di alcuno. Questo appare un dettaglio secondario per le guide di Ferramonti che accennano soltanto alla zona malsana, senza dire una parola sulla falda freatica superficiale che forniva un’acqua inquinata o sul microclima pessimo che, con temperature freddissime in inverno e che toccavano i 45° in estate, costituiva un ulteriore tormento per i detenuti.

Non dimentichiamo, per carità, quanto la storia abbia bisogno di essere tramandata nella forma più sincera possibile. Altrimenti si cancellino pure le sterili giornate della Memoria Edulcorata a Ferramonti. Un dettaglio necessario a far riflettere: alla fine della visita guidata al campo calabrese, viene proiettato un breve filmato inedito contenente testimonianze dirette. Dopo i racconti drammatici, la voce narrante pronuncia in yiddish una preghiera. I ragazzi in visita, dell’età di sedici o diciassette anni, dopo aver ascoltato la nostra favola, lasciati a guardare il film dall’insegnante che li accompagna, si fanno beffe delle testimonianze e dell’ “Amen” che chiude la preghiera e gli eventi narrati.

Se di favole si vuole parlare e scopo delle favole è quello di edificare, non si dimentichi che in esse il male esiste ed è un antagonista forte e feroce del bene. Chi lo dimentica, lo deride o lo sottovaluta è destinato a commetterlo e a subirlo ancora e ancora, prima di riuscire a imparare da esso e ad estirparlo da sé e dalla Storia.

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