L’ultimo poeta del Novecento: intervista con Mariano Bàino
24/04/2015 blog

 Mariano Baino è nato a Napoli, nel 1953. È tra i fondatori del gruppo ’93 e della rivista Baldus. La sua opera poetica ha animato un importante dibattito. L’ultimo importante dibattito del secolo scorso sulla poesia.

In questa intervista ripercorriamo insieme a Mariano la sua esperienza poetica, dagli esordi giovanili di Camera Iperbarica (1983) fino alle ultime sestine pubblicate su rivista nel 2003.

 

Nel 1963, nei pressi di Palermo, si riunisce il gruppo ’63 per discutere intorno alla neoavanguardia.

Nel 1969 Adriano Spatola pubblica il saggio Verso la poesia totale.

 Quanto hanno inciso questi due appuntamenti sulla tua formazione poetica?

Ho creduto, all’inizio, con Greenberg, a un’arte scissa in avanguardia e falsità. Successivamente si è fatta sentire anche l’attrazione del classicismo moderno. Credo ci sia nel mio lavoro questa oscillazione vitale. Ma gli echi del dibattito del Gruppo ’63 hanno inciso sicuramente sulla mia formazione poetica. Un grande laboratorio quelle discussioni di poeti, scrittori, critici. Tanti gli spunti per riflettere. Che so, l’idea per cui nel linguaggio è inclusa non solo la liberazione, ma anche l’alienazione; un modo di sentire che accoglie la disarmonia; un rapporto con la realtà sorretto da un rinnovata sensibilità sensoriale; l’impegno come qualcosa che non deve darsi prima dell’agire poetico, ma deve realizzarsi con questo; il contraddittorio, dialettico star dentro la letteratura mirando a un fuori della letteratura; la presa di distanza dall’esistente; l’idea, di Eco, per cui l’artista è avviato ad essere sempre più, allorché si accinge a comporre, un debuttante nel vuoto… E Spatola, con la sua ipotesi della poesia totale, mi ha offerto la possibilità di riflettere su una sperimentazione che andava oltre i generi codificati della letteratura e che coinvolgeva ogni campo espressivo, intersecando la scrittura, la voce, l’immagine, l’azione. Un’ arte spostata sull’oralità come sulla figurazione visuale, sul corpo come sul reciproco attraversamento dei linguaggi.

Gli anni ’70 segnano il ritorno di una poesia meno interessata alla sperimentazione linguistica, contraddistinta da un restaurazione di moduli tradizionali. Fausto Curi definisce questo periodo con il nome di “normalizzazione”.

Agli inizi degli anni ’80 – e precisamente nel 1983 – esce il tuo primo libro, Camera Iperbarica. Questo libro è un insieme di poesie in versi sciolti, poemetti, prose ed immagini.

Sembra un insieme poco indicato per entrare in una camera iperbarica. Sembra un insieme poco affine a quell’idea di “normalizzazione”. Cos’è la tua camera iperbarica?

Il mio esordio lo devo proprio a Spatola (che disegnò anche la copertina del libro) e alle sue edizioni di Tam Tam. La grande stagione della neoavanguardia era finita, e la definizione di Curi di quegli anni è corretta. Vi era un ritorno all’ordine per la poesia, nei modi del risarcimento lirico e dell’atteggiamento mitizzante la figura del poeta, a scapito delle pratiche sperimentali. In tutto questo, Adriano Spatola rappresentava un punto di resistenza dell’avanguardia, non solo nei testi ma anche nella produzione autonoma degli oggetti tipografici. Per parte mia, sentivo non più autentici, non praticabili, una poesia mimetica e un regime di scrittura dominato dalla metafora.

La ricerca poetico-visuale di Camera Iperbarica raccoglieva testi fatti di un discontinuo, asimmetrico emergere di frammenti di discorso. Architetture verbali in cui gli elementi isolati, i lessemi, i sintagmi, avevano un senso concettuale. Un susseguirsi irregolare di unità provvisorie in cui il materiale linguistico aveva a volte una disposizione labirintica. I significanti grafici non aspiravano alla trasparenza della comunicazione, volevano essere percepiti per la consistenza materiale del loro segno. Oltre a questa scrittura visualizzata c’erano i poemi-oggetto, le poesie visive, il tentativo dell’inter-codice fra il “visivo” e il “verbale”. Il titolo del libro richiamava l’ambiente in cui si pratica la terapia iperbarica, che crea una pressione superiore a quella atmosferica. Un aumento di ossigenazione del sangue per curare l’embolia gassosa. Un premere sul lettore, ma a fin di bene.

La rivista Baldus ed il gruppo ’93 mettono in chiaro le coordinate della tua poetica. Probabilmente il gruppo ’93 è l’ultimo gruppo letterario della letteratura italiana. Quali erano i vostri intenti e, voltandoti indietro, quale credi sia stato il maggior merito del gruppo ’93?

 Sul finire degli anni Ottanta condividevo con altri poeti, e in particolare con Biagio Cepollaro e Lello Voce, un disagio dovuto alla koinè culturale postmoderna, con l’accostamento indifferente di ogni cosa con ogni altra: il venir meno di confini, distinzioni, lontananza critica. Sentivamo che il nostro era un tempo après le déluge, e che non si potevano più coltivare illusioni sulle capacità rivoluzionarie del linguaggio, che non aveva prodotto (né poteva farlo in futuro) sovvertimenti nell’ideologia. Da qui il disincanto, anche verso il proprio passato, e tuttavia il bisogno di riflessione comune sui testi, la ricerca di un senso, di una direzione. Sono i presupposti per la nascita della rivista “Baldus”. Con la VII edizione di “Milano-poesia”, nel settembre 1989, nacque il Gruppo 93. Il richiamo al Gruppo 63 c’era, ma si voleva indicare anche l’anno dello scioglimento. Nessuna aspirazione ad aggrupparsi in una forma rigida. Un progetto che sapeva della propria precarietà, indifferente verso l’organicità e il sistema. Si voleva un luogo d’interazione, non una poetica di gruppo. Parlavamo di “dialogicità dell’eterogeneo”. Il “postmoderno critico” proposto da “Baldus” e condiviso da una parte del Gruppo 93 era una formula ossimorica: da un lato accettava il postmoderno come condizione storica, come venir meno delle antitesi del moderno (fra cui quella avanguardia-tradizione); dall’altro voleva conferire al pastiche (per Jameson la forma organica del postmodernismo, in cui la contaminazione è acritica e ogni elemento è simile a un altro) il carattere della criticità, della “critica in azione”, per dirla con un’espressione proustiana relativa, ovviamente, al pastiche in altro contesto storico-culturale. Un lavoro sui margini, lungo un crinale strettissimo, per dare ancora agli elementi radunati nel montaggio del testo una tensione dialettica. Un uso critico della contaminazione. Una letteratura neanche più di secondo, ma di ennesimo grado, che voleva trattare il postmoderno come referente da investire, da oltrepassare, con una reattività polifonica data dai lacerti del passato letterario e dalle mille voci del presente. Ciò significava, tra l’altro, che avanguardia e tradizione occorreva farle rivivere entrambe, in un nuovo lavoro della poesia. Nelle elaborazioni di quegli anni forse un merito c’è: l’aver letto in modo abbastanza puntuale lo scenario. E aver provato a spingersi in uno spazio nuovo, sebbene in pochi.

 

 Fax giallo è forse il crocevia della tua esperienza poetica. Le parole che fuoriescono dal fax descrivono il mondo e facendolo sconvolgono e mettono in ombra l’io poetico. Era il 1993.

Credi che i social network, oggi, abbiano sconvolto e “imbavagliato” l’io poetico, portando a completamento l’operazione che aveva avviato il tuo fax giallo?

 L’idea compositiva era quella di mostrare un continuo irrompere dei messaggi di un fax nel flusso di coscienza. Difficile distinguere, per il lettore, la “voce” del fax dalla produzione interna dell’io. Volevo richiamare la velocità e la violenza della pressione di tecnologie e masse d’immaginario sul soggetto, che lo confondono, ne compromettono i tentativi di costituirsi come centro. Riferendosi al ritmo serratissimo, iperveloce di Fax giallo, Renato Barilli – durante un incontro di “Ricercare”, al Teatro Valli di Reggio Emilia – parlò di un precipitare l’una sull’altra di valigie su un tapis-roulant. Avevo in mente, nello scrivere, non solo le questioni relative al plurilinguismo, alla contaminazione, al come fabbricarmi la mia lingua poetica, ma anche un’idea di gioco nell’accezione che al termine dà la meccanica: un accoppiamento mobile, uno spazio tra due superfici che ne permette il movimento. Fax giallo voleva costituirsi come uno spazio che evitasse il blocco, la paralisi fra la superficie data dalla realtà contemporanea con le sue derive, e la superficie data dalla capacità di opposizione e di reattività del soggetto. Nella migliore poesia della generazione successiva alla mia, parlo di quella che tenta ancora di porsi in una linea di ricerca, mi pare che le strategie testuali vogliano soprattutto evocare il vuoto, di senso e linguistico. Forse una resistenza del soggetto non è più possibile. Forse il blocco è avvenuto. I social network, con la messa in vetrina della nostra vita liquida, condizionano soprattutto i poeti molto giovani, spingendoli all’effusività immediata e alla mitizzazione della figura del poeta.

Ônne ‘e terra (1994) propone un uso fortemente letterario del dialetto e una teorizzazione del “comico”, in quanto esaltazione della ricchezza delle possibilità linguistiche. Quanto è importante la componente dialettale nella tua sperimentazione linguistica? 

Molto importante, direi. La componente dialettale ha a che vedere con un ritorno del represso, storico, antropologico. Epperò, il contatto con le schegge di un dialetto (una “lingua” perdente, minoritaria, aggredita dall’italiano e da altra lingua più “mondializzante”) non ha mai avuto il senso di un’operazione nostalgica, un rifluire del linguaggio verso profondità materne irrecuperabili, piccole patrie, sparute comunità. La poesia non può attardarsi a riecheggiare questioni che non hanno più riscontro nella realtà. Il mondo, per dirla con Diderot, comincia e finisce senza posa. Il “campo dialettale” mi ha attratto in quanto fenomeno di trasformazione in atto, metamorfosi, luogo di attriti in cui il disciogliersi delle comunità tradizionali e delle vecchie identità è il punto da cui muovere. Un uso del dialetto è presente un po’ in tutti i miei testi, mescolato all’italiano, al francese, allo spagnolo. Con Ônne ‘e terra volevo scrivere di Napoli, dar vita a una poesia non “locale”, ma “del luogo”. Dicevo in un questionario propostomi dalla rivista “Diverse Lingue” (anno X, n.14, 1995): “L’esigenza di un’ espressione tutta dialettale continuava a sembrarmi l’unica garanzia per attraversare nel loro specifico i miei luoghi di vita, e tuttavia si complicava con gli ingredienti plurilinguistici del mio lavoro già in atto. La mia ricerca ‘dialettale’ consiste nell’aver accettato la flânerie in quei luoghi, portandosi dietro gli smagamenti relativi alle possibilità di costituire uno stile “altro” rispetto all’esistente; il bisogno di attrezzare, con codici e lingue diversi, uno strumento linguistico non irenico; le mediazioni culturali necessarie per non occultare la babele oggidiana dei linguaggi e per non accordare al dialetto statuti speciali di valore poetico. Ma anche consiste nell’aver accettato di dialogare con il genius loci di Napoli, lasciando che la sua lingua, il napoletano, fosse, dirò così, il fattore radunante gli altri fattori compositivi. Il senso di questa flânerie dialogique, dell’attraversamento del labirinto-città a partire dal reticolo della sua lingua, può forse considerarsi […] il nucleo contenutistico in rapporto al quale, nella raccolta Ônne ‘e terra, ho scelto il dialetto”.

Circa il comico, agisce nel testo un pensiero carnevalesco. Non solo perché si evocano giochi di dadi, alberi della cuccagna, re burloni: proprie del carnevale sono l’eccentricità e la continua mobilità delle forme. Dialogicità e comico ovviamente portano a Bachtin, la cui rilettura era per me e per i miei sodali curvata sul tentativo di calare la polifonia, l’interdiscorsività – dal teorico russo pensate come esclusive del genere romanzo – nella tradizionale monodia della poesia. Ônne ‘ e terra, come testo letterario carnevalizzato, si    proponeva il rovesciamento allegorico, la dissacrante “scoronazione” della fissità di una maschera: quella di Napoli e della sua “napoletanità”. Il comico fa capolino anche nei continui cambiamenti di ritmo e di intonazione, e come sorpresa di fronte alle possibilità linguistiche. Favorite, così mi sembrava, dalla capacità del dialetto napoletano di far rivivere, in un particolare multiversum linguistico, epoche storiche diverse.

-La riscrittura è una pratica cara a qualsiasi sperimentalismo. In Pinocchio (moviole) la tua riscrittura del classico di Collodi si traduce in un’interrogazione sul ruolo della poesia e del poeta stesso, che si lascia travolgere dal flusso discorsivo e “si dimette” quando ancora non siamo giunti all’ultima pagina. Siamo nel 2000. Le dimissioni del poeta possono segnare la fine di un secolo, il sipario che cala sull’io poetico?

 Già, l’ipertestualità di Pinocchio (moviole), il primo dei miei libri palincestuosi… Nella trasformazione dell’ipotesto collodiano, in una delle brevi inserzioni in prosa, l’autore, nel fare il verso alla propria figura, si sdoppia: c’è il “neocollodi di turno”, che lascia pezzi incompiuti e personaggi allo sbaraglio; c’è un editor che non riesce a tenere sotto controllo la diegesi e si dimette, salta giù “dal libro che affonda”. La situazione paradossale, il dubbio su chi è che scrive, l’atto del dimettersi, possono forse investire un ambito più largo della rivisitazione pinocchiesca. Nel presentare un’antologia di poeti italiani giovani dicevo che questi avevano compiuto “il passo falso dell’esistenza (e della resistenza?) poetica”. L’attuale società sembra non sapere dove metterla, la poesia, la trascura come valore d’uso, né sa trasformarla in merce. Dicevo quindi che la cosa migliore sarebbe l’autotutela di una exit strategy dal genere. Sinceramente non so se la poesia può dirsi finita con il “secolo breve”, se il nuovo secolo-millennio veleggi verso altra produzione d’arte e di realtà. L’impressione, per ora, è che il “poetico” vada riconfermandosi come enfasi identitaria unita alla banalizzazione della forma, o come spettacolo. Per parte mia, le dimissioni non le ho mai presentate davvero, continuando a curare due collane di poesia (per le edizioni di Bibliopolis e di Oédipus). Soprattutto nel proporre autori delle generazioni più giovani ho cercato di rintracciare una linea di ricerca, una poesia macerata dal dubbio sull’unitarietà del soggetto, rivolta alle sue slegature, alla contraddizione fra “voler dire” e “non poter più dire”. Non sempre mi sono sentito in sintonia con questi testi, ma ho accordato ad essi un consenso oggettivo. Nel mio privato continuo a scrivere poesie, in particolare nella forma del sonetto. Mi concedo la libertà di non dover riflettere decisivamente se il ritmo è o meno un’illusione. Mi piace pensare, con Laforgue, di avere “l’infinito in cantiere”. O nel cassetto.

Con Sparigli Marsigliesi (2002, poi 2003), Amarellimerick (2002) e le sestine (pubblicate su rivista nello stesso anno) la tua esperienza poetica incontra e rinnova gli schemi metrici tradizionali. È, questa, la tua fase di “normalizzazione” o una nuova sperimentazione? 

La mia esperienza poetica visibile, la vicenda delle pubblicazioni, si ferma con quei testi. Nei primi due la situazione è ludica. In entrambi il lavoro è sul comico linguistico, che avevo individuato come una direzione da seguire già negli anni Ottanta (ve n’è traccia nella rivista “Altri Termini”, 6-7-8, 1986-87). Il calembour, il witz, il mot-valise, l’autonomia del significante, le catene metonimiche, la materialità della parola, nel primo testo ( in dialetto e in italiano, e dedicato al mazzo di carte dei Tarocchi) danno luogo a una fitta concentrazione verbale, gioco che rifiuta la chiusura geometrica, che continuamente spariglia. Il secondo propone, innestandovi il mot-valise, la struttura metrica del limerick creata da Edward Lear o meglio alcune sue varianti ritmiche, poiché quel metro non è riproducibile in italiano. Nelle sestine, dentro la gabbia della retrogradatio cruciata, c’è la creolizzazione di italiano e napoletano. In ogni caso, non sono mai stato interessato alla contrapposizione fra verso libero e neometricismo. In Ônne ‘e terra avevo tradotto tre sonetti di Gόngora, e Fax giallo è composto di lasse con lo stesso numero di versi. Sto con Derek Walcott, che usa forme aperte e forme chiuse. Montale diceva che il problema delle forme aperte o chiuse è di poco interesse, dal momento che, in ogni caso, non si dà poesia senza artificio. Stimavo, con Ônne ‘e terra, di aver raggiunto 2,5 lettori : non penso, con le ultime prove, di aver incrementato granché la platea, di essere passato dalla sorte degli “auteurs dificiles” a quella delle “liale”.

A distanza di più di venti anni dal gruppo ’93, la stagione delle sperimentazioni poetiche sembra ormai archiviata. Di manuali parziali o “definitivi” sulla poesia italiana del novecento ne sono stati scritti molti e continueranno ad esserne pubblicati.

La tua esperienza poetica si ferma al 2003, in concomitanza con l’inizio del nuovo millennio (non si può pretendere che l’orologio dei secoli scocchi puntualissimo, di ciò ne siamo coscienti).

Da allora hai scritto tre romanzi ed un calderone di pensieri (Le anatre di ghiaccio). Di questa tua produzione saremo felici di parlarne in un’altra intervista.

 Per il momento ci piace chiudere con un’ultima domanda.

Facendo un po’ i conti con il secolo che è passato, le avanguardie che si sono succedute e le normalizzazioni che sono subentrate, non ti senti l’ultimo dei poeti del Novecento italiano?

 Se parliamo in senso qualitativo, forse non rinuncerei ad aspirare, come ruota del carro, a un moderato avanzamento di posizione… In senso cronologico, c’è sempre un ultimo di qualcosa. Ma penserei a una singolarità collettiva. A un “noi”.

 

 

Domande a margine

 

L’ormai celebre sezione n.49 di Postkarten di Sanguineti (per preparare una poesia si prende un piccolo fatto vero…) ha indicato gli utensili del mestiere di poeta.

Quali sono i consigli di Mariano Bàino per preparare una poesia?

 Consigli ad altri? Per carità… Il consiglio che do sempre a me stesso, ma che non riguarda il prima della scrittura, è di ricordarmi sempre di una notazione nicciana che, a un dipresso, voleva l’opera d’arte, in ogni suo momento, diversa da ciò che è…

Quale libro ci consiglieresti di leggere – pescando fra i tuoi preferiti o fra le ultime scoperte da lettore?

 Jurgis Baltrušaitis, Lo specchio.

 

 

Bibliografia di Mariano Baino

Poesia

  • Camera iperbarica (Tam Tam, 1983)
  • Fax Giallo (Nola, Il Laboratorio, 1993, poi Rapallo, Zona, 2001, con una nota di Gabriele Frasca)
  • Ônne ‘e terra (Napoli, Pironti, 1994, poi Civitella in val di Chiana, Zona, 2003)
  • Pinocchio (moviole) (Lecce, Manni, 2000)
  • Sparigli marsigliesi (passar d’imago in mago fra i tarocchi)” (Nola, “Il Laboratorio”, 2002, poi Napoli, edizioni d’if, 2003)
  • Amarellimerick (Salerno, Oèdipus, 2003)

Prosa

  • Il mite e immite limite, in “Confini” (racconti di fine millennio), (Cava de’ Tirreni, Avagliano, 1998)
  • Le anatre di ghiaccio (Napoli, l’ancora del mediterraneo, 2004)
  • L’uomo avanzato (Firenze, Le Lettere, 2008)
  • Dal rumore bianco (Napoli, Ad est dell’equatore, 2012)
  • In (nessuna) Patagonia (Napoli, Ad est dell’equatore, 2014)
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Comment da mariella pacifici - 4 maggio 2015 alle 18:49

Veramente interessante il percorso metamorfico di Mariano Baino. Il suo linguaggio poetico rappresenta questa caleidoscopica ricerca di identità: dubbio, contraddizione, sperimentazione, dialogicità, contaminazione sono i termini più significativi del suo iter di organica discontinuità.